Se vuoi lasciami andare abbracciami
Storie di piccoli gesti di amicizia


Ammetto che può suonare strano sentir parlare di morte a primavera, stagione della rinascita, dei colori e delle farfalle sui fiori. Da qualche anno accompagno i proprietari alla morte dei loro animali, perché credo fortemente che l’eutanasia possa essere evitata nella maggior parte dei casi, in particolare nei malati terminali ed anziani. È un tipo di lavoro che è nato spontaneamente e negli ultimi mesi sembra sia una delle mie “specializzazioni”. Ci tengo a parlarne perché mi tocca veramente nel profondo ma ammetto che organizzare le idee nel turbine di emozioni che generano queste esperienze mi ha messo in difficoltà.

Per me gestire l’ultima fase dalla vita di un animale fa parte del quotidiano e sinceramente comincio a vedere, nella sofferenza generata da quei momenti, un’ottima occasione di crescita personale, una specie di primavera dell’anima.

“Non capisco perché la gente si dispera così mamma, la morte fa sempre parte della vita e poi nonna Santina è durata veramente tanto…” Fatima, 5aa.

Me la ripeto spesso, tra i pensieri, questa frase di mia figlia, buttata lì, con quella saggezza semplice e sfrontata dei bimbi, mentre vado in macchina dai miei pazienti. Generalmente l’animale in questione conferma il concetto con naturalezza e soprattutto con la spontanea tendenza a liberarsi di un corpo vecchio, malato, pesante e dolente. La prima cosa da imparare dalla natura è che morire può essere una liberazione perché se è vero che l’animo nel corso degli anni si espande e cresce, il corpo si deteriora, si indebolisce, non è più in grado di contenere ciò che nel frattempo si è evoluto e necessita di espandersi oltre.

Manuela: “Sono molto arrabbiata con il veterinario, quando mi ha detto che Camilla aveva un tumore sono scoppiata a piangere e lui mi ha risposto che il cane ha tredici anni e prima o poi doveva morire!”

Io: “Beh, scusami Manuela ma in fondo è vero no?”

Manuela: “Si ma non è quello il modo di dirlo e poi Camilla è speciale!”

Camilla è deceduta un mese dopo questa conversazione, era un cane da pet-therapy, aveva un vissuto di almeno dieci anni di lavoro accanto a Manuela con bambini disabili, anziani ed oncologici. È vero, era decisamente un cane speciale. Parlare a qualcuno in uno stato così vulnerabile è come toccarlo, il modo in cui vengono pronunciate le parole può risultare violento e violante (aimè quante volte ho io violato qualcuno prima di capire questa cosa).

Io credo che Manuela abbia ragione, la perdita è qualcosa che non è facile da affrontare, il vuoto che lascia un animale è nettamente sottovalutato e non tutti possono capirlo. Ma in quel mese in cui ho seguito Camilla la sua proprietaria si è messa in gioco, ha rifiutato l’intervento ed accolto con tutta la forza che aveva quell’enorme dolore che stava arrivando. Si è chiusa in una camera con lei, hanno riguardato insieme tutte le foto delle loro esperienze lavorative e Manuela ha ringraziato la sua compagna di averle dato così tanto.

Poi una mattina Camilla si è alzata, è uscita per i bisogni, è rientrata, si messa nella cuccia, il suo corpo si è addormentato e Manuela lo ha accompagnato con un lungo abbraccio. Non ero sicura ce l’avrebbe fatta, non ero sicura che sarebbe rimasta in quel dolorosissimo abbraccio senza cercare di trattenerla. Invece è riuscita ad accogliere tutto quel dolore, farlo suo e di nessun altro, celebrando questa lunga amicizia.

Gabri: ”Io so che Zara sta morendo, so che devo e voglio accompagnarla, ma tu potresti dirmi quali saranno i sintomi che manifesterà pria di morire? Cosa mi farà capire che sta per finire? Quanto manca? Cosa devo fare per lei?”

Ho abbastanza confidenza con Gabri da ironizzare sulle mie carenze in merito a sfere di vetro e doti da chiaroveggenza. L’unica domanda a cui ho saputo rispondere è che c’è una errata concezione del fatto che scegliere di non fare una eutanasia non significa non fare niente. Scegliere di accompagnare qualcuno alla morte è un gesto di consapevolezza che è fatto certamente di attese a tratti insostenibili, di silenzi stracolmi di tante emozioni, di timori ed incertezze, ma in quel “non fare” ci devi mettere tutto te stesso. In quel “non intervenire” ci sono minuscoli gesti di accudimento, come un goccio di acqua con una siringa, un cuscino più morbido, un tenersi per mano, una frase sussurrata con dolcezza, che devono essere fatti con una precisa cerimonialità. La precisione con cui ci avviciniamo e istauriamo un con-tatto richiede uno stato interiore estremamente lucido e calmo, seppur colmo di dolore. Per questi motivi spesso non ci si può avventurare da soli su questa strada e si chiede l’aiuto di un professionista. L’ortho-bionomy è una disciplina che si presta molto a questo tipo di lavoro perché prevede che l’operatore raggiunga quello stato di neutralità che gli permette di avere una visione di tutte le dinamiche che istaurano in questi casi pur non entrando in risonanza con le emozioni dei clienti.

 Zara in questi giorni è agli ultimi respiri e non è decisamente convinta di fare questo salto. Gabri da parte sua, un donnino così piccolo decisamente non avvezzo ai salti nel vuoto, si è fatta grande grande ed è riuscita a racchiudere questo mucchietto di peli ed ossa in uno splendido abbraccio, incredibilmente pieno di ascolto ed amore.

Mentre scrivo sono seduta sul divano, davanti al focolare, accanto a Brusco, il mio vecchietto compagno di viaggio. Brusco è arrivato a vent’anni ormai, è cieco e sordo ma mantiene i suo storico appetito (siamo buone forchette da sempre io e lui). Insieme ci siamo laureati un secolo fa, abbiamo cambiato una quindicina di case, cresciuto una figlia e giusto oggi mi chiedevo se riuscirà a benedire il mio matrimonio. Ha già fatto il passaggio delle consegne alla più giovane e saggia del branco e da quei giorni vuole solo dormire sul divano accanto a me, richiamandomi al mio dovere dopo un periodo di assenza.

Cerca il contatto Brusco, come da tempo non faceva e non abbiamo ancora capito bene io e lui come riusciremo a lasciarci. Probabilmente arriverà semplicemente il giorno in cui, con la sua saggezza infinita mi dirà: “Se vuoi lasciarmi andare abbracciami forte Sara”. Spero solo di essere all’altezza di fare di quell’abbraccio un trampolino di lancio per il suo spirito e non una gabbia senza uscita.

 

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